In occasione della 10a Giornata Mondiale delle Malattie Rare, Chiesi ha contribuito con un articolo divulgativo sull’importanza della ricerca in questo campo.
Dalla fibrosi cistica all’alfa-mannosidosi cronica, sono oltre seimila e riguardano fino a 5 casi su diecimila persone. La decima giornata mondiale delle malattie rare ci offre l’opportunità per saperne di più. Perché spesso le loro conseguenze irreversibili dipendono anche dalla carenza di informazione
Un paziente con la cornea danneggiata che torna a vedere e a guidare, un bambino non più in grado di camminare che riesce gradualmente a ritrovare l’equilibrio sulle sue gambe. Storie a lieto fine che, grazie a terapie innovative nel campo della biomedica e farmaci ad hoc, riescono a dare speranza a tutti quei pazienti che hanno scoperto di essere affetti da una delle cosiddette “malattie rare” e sovente si sentono lasciati soli a combattere contro un nemico dall’identità mai troppo nota: se da un lato il tema è che non esistono cure specifiche – e talvolta nemmeno quelle palliative – un altro problema da non sottovalutare è il fatto che le malattie rare sono oggettivamente molto difficili da diagnosticare, sempre che sia possibile farlo in tempo. Senza dimenticare che solo di recente una (virtuosa) parte dell’industria farmaceutica ha iniziato a investire risorse ingenti per sviluppare farmaci e terapie da dedicare a un segmento di mercato numericamente esiguo: l’UE individua nella prevalenza dello 0,05% la soglia convenzionale utile a far rientrare le patologie in questa classificazione. Parliamo di meno di cinque casi ogni diecimila abitanti, dai 450 mila ai 600 mila pazienti potenziali in Italia. Numeri che, peraltro, non tengono nemmeno conto delle malattie “ultra rare”, ancora più infrequenti e difficili da individuare. Ma qualcosa si muove.
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